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Il titolo scelto fa pensare a una diagnosi clinica più che a una mostra, ma in questo sta la sua forza. In quel “dispersa” è custodita l’aporia principale del nostro tempo, che somiglia al sintomo  di un malessere grave. L’umanità, infatti, si dimostra tale quando esibisce di sé la struttura unitaria. Il suo essere un “intero” anziché un insieme di “parti”. La dispersione e la frantumazione che la precede, invece, allargano le trame del tessuto unitario che dovrebbe informare di sé l’umanità. Feriscono quel tessuto e lo slabbrano, fino a creare lacerazioni e buchi. Ferite dunque che, oggi, fanno dell’umanità un corpo dolente, quasi un reperto patologico vivente.

 

Intendiamoci, non è che la storia sia mai stata una successione lineare di eventi progressivi, in grado di dare consistenza solidale all’umanità. Al contrario essa è apparsa piuttosto come la ricapitolazione ciclica di rovine e di macerie, di sangue e  sofferenze indicibili. Eppure fino a qualche decennio fa, nonostante tutto, essa aveva mantenuto in vita alcune certezze. L’esistenza delle classi sociali, ad esempio, e delle loro ideologie. Di pensieri lunghi, di filosofie che tentavano, persino, di interpretare il mondo. Di utopie e religioni, in grado di riprodurre il senso di una direzione possibile da scegliere. Di parole adatte ad esprimere la multiforme varietà dei sentimenti e delle proposizioni razionali.

 

Oggi viviamo un tempo in cui lo sfruttamento, le macerie, le carestie e le guerre persistono ma sono scomparse alcune certezze elementari. Quelle che hanno sempre consentito di distinguere gli affamati dagli affamatori, i giusti dagli ingiusti, gli empi dai santi. L’umanità dispersa è il teatro di un’atomizzazione sociale che tutto relativizza e banalizza, che tutto rende liquido e inconsistente, afasico e aprassico. Una inconsistenza della quale si nutrono le ragioni ontologiche del dispotismo della forma merce che, per espandersi e dominare, ha bisogno che attorno a sé non solo non esistano narrazioni concorrenti, ma nemmeno residue barricate di senso critico e (persino) poetico.

 

In tutto questo l’arte, più della politica basilikè tèchne (tecnica regia), perde i suoi riferimenti. Si agita boccheggiando. Si piega sotto i colpi di un sistema di dominio che tutto sottomette al laccio del mercato. In questo cupo scenario ogni paradigma, ogni idea forte si sfarina, anche quella di uno statuto dell’arte che non può non stabilire il perimetro, ancorché flessibile e mutevole, di ciò che è arte e di ciò che non lo è. Ogni cosa diventa intercambiabile e l’unico statuto plausibile è quello che riconosce all’arte un valore soltanto: il valore di scambio. L’arte come sotto-merce e il valore declassato a prezzo.

 

È proprio in questo periodo buio, che dura ormai da troppo tempo, e che cerco da anni di studiare e combattere per come so e posso, che mi viene proposto di curare la mostra di due artiste: Giulia Del Papa e Roberta Maola. Due giovani e fondate promesse, la cui ricerca e la cui produzione si colloca, sicuramente e a buon diritto, nel solco di quelle pratiche di resistenza attiva che ancora autorizzano un cocciuto “ottimismo della volontà”. Mi riferisco a quella resistenza che in arte, come in letteratura, come in politica e in ogni altra attività, si rifiuta di ritenere che alla vulgata postmoderna non ci si possa opporre ma solo adattare.

 

Giulia Del Papa e Roberta Maola, senza clamore e con silenziosa determinazione, riaffermano quotidianamente la convinzione che il lavoro e lo studio possano pagare. La certezza che non sia inevitabile rassegnarsi alla scomparsa del “mestiere” in arte, così come la determinazione a mantenere, nel perimetro del loro fare, quel legame dell’arte con il mondo che Adorno riteneva elemento costitutivo essenziale di ogni ricerca estetica. Oggi tende a prevalere la sostituzione di questo legame con i diktat di un sistema dell’arte cinico e feroce. E questa è la tesi. Ma l’antitesi, vivaddio, esiste e si incarna nel lavoro di chi crede nella bontà di scelte diverse e oppositive.

 

L’arma che Giulia e Roberta utilizzano in questa battaglia delle idee è silenziosa ma a suo modo implacabile. Quest’arma è la matita, il disegno. Quella cosa semplice e grandiosa che fece dell’arte fiorentina e del Rinascimento un’epoca irripetibile. Il disegno come fondamento. “L’arte è cosa mentale” diceva Leonardo Da Vinci, che stabiliva un legame funzionale indissolubile fra mente, occhio e mano. Così come l’arte veneta era fondata sul colore, portavoce di sentimenti e di passioni, quella fiorentina era fondata sul disegno e la linea di contorno, latori e amplificatori del pensiero razionale. Di questi fondamenti, debitori della tradizione classica italiana, sarebbe difficile oggi trovar traccia nelle province dell’arte post-contemporanea. Le nostre due artiste invece, ostinatamente, non solo vi ritornano ma fanno di questi principi il piedistallo della loro costruzione quotidiana.

 

È a questa tradizione che mi piace riferirmi parlando del loro lavoro. Piuttosto che all’iperrealismo di stampo americano, quello classico dei Richard Estes, Ralph Goings e Chuck Close. L’iperrealismo per lo più, con tutte le lodevoli eccezioni del caso, gareggia con la fotografia nel riprodurre la realtà così com’è. Tanto che il risultato massimo agognato da chi usa questo linguaggio è quello di rendere le proprie opere indistinguibili dalle immagini fotografiche. Ecco, questa intenzionalità illusionistica e in qualche modo funambolica è esattamente l’opposto di ciò che connota l’investigazione e il lavoro quotidiano di Del Papa e Maola.

 

Le opere di ciascuna di queste due artiste in questo ritrovano una naturale parentela: nel non aspirare all’effettaccio da prestigiatore, da virtuosista della grafite. L’intenzione è diversa e più alta. E non ha nulla a che vedere con l’oziosa gara con la precisione freddamente calligrafica della fotografia. Chiunque osservi con un minimo di attenzione le opere di queste due autrici subito si accorge di non aver davanti una delle tante immagini fotografiche, ormai rese stucchevoli dalla smania replicativa  del digitale. Un calore promana dalle figure e dagli oggetti che popolano la loro narrazione, che testimonia lo scorrere in esse del sangue di un prepotente vitalismo.

 

L’obiettivo che questa coppia di artiste si prefigge è fare arte utilizzando il più antico dei mezzi, sicure che non è il mezzo che si sceglie a interessare ma il fine che si persegue. E convinte – come io lo sono – che il mestiere e la tecnica siano elementi costitutivi essenziali dell’attività di un artista che aspiri anche solo a spostare una virgola nella lunga storia che prese le mosse dalle grotte di Lascaux. Se questi sono i presupposti, la mostra di oggi nella cornice autorevole e carica di storia dell’Archivio Menna/Binga, regala un’occasione imperdibile per ammirare sei opere distillate in mesi di lavoro come si fa per i liquori più nobili e costosi. Opere fra loro vicine ma anche diverse per come le rispettive autrici si pongono nei confronti dell’arte e del mondo.

 

Giulia Del Papa riflette sulla necessità di “rallentare”, di fermarsi a pensare ciò che della vita ci sfugge per i ritmi esasperati di un quotidiano che non lascia tregua. Velocità e superficialità sono  due facce di un’unica medaglia. Quella che immaginificamente riproduce la cifra dell’esistere per come oggi si sostanzia: un istante che vola via senza lasciare tracce, complice di un presente amputato del futuro e del passato. I volti ritratti con maestria nelle tre opere presentate dell’autrice sono quelli dell’autrice stessa, che usa in due di esse lo specchio per fissare l’immagine e invitare alla sosta. Una sosta che ristora e rigenera, capace di dare fiato alla corsa e di rifornire di idee un tempo senza idee. L’arte è una cosa mentale si diceva. Ed è tutta mentale la rappresentazione di una dimensione spazio-tempo entro la quale, rallentando appunto, si possano cogliere le Visioni segrete (come titola una delle opere), scoprendo quell’essenziale invisibile altrimenti destinato a sfuggirci. Il tratto sicuro e la dialettica del chiaroscuro espungono da sé qualsiasi sciocca ambizione calligrafica, facendo affiorare una precisione di sintesi che emancipa quest’artista dalla stucchevole ripetitività di un iperrealismo manierato e stanco. La rete dei rami che, come una veletta dell’ottocento, distanzia l’osservatore dai volti, rami secchi e apparentemente non vitali ma domani portatori di rinnovata e rigogliosa vitalità, è l’omaggio a quella natura ciclica degli antichi greci di cui oggi, purtroppo, è scomparsa persino la memoria letteraria.

 

E poi Roberta, Roberta Maola che, come Giulia, si occupa del mondo ma incardinando la sua “riflessione a matita” su temi sociali testimoni della deriva di una fragilità che, un tempo, fu foriera di riscossa e oggi latita alla ricerca del coraggio e della consapevolezza attiva. Struggente la rosa che, nel suo 69 centesimi, alloggia in una bottiglietta di plastica nata per contenere acido muriatico. Un prodotto apparentemente innocente ma che custodisce un liquido in grado di sfigurare e violare l’identità e la vita, com’è accaduto in episodi di cronaca tristemente noti. Roberta orienta la sonda della sua investigazione sui fatti e sui misfatti dell’oggi come quando in …spazio alle idee, con perizia e sapienza concettuale, affianca la forchetta al fiore. A venirmi in mente è subito Il Pane e le rose di Ken Loach, e l’esigenza per gli sfruttati del mondo di nutrirsi della bellezza, perché la bellezza serve come serve il pane.  Ce lo ricordano le scritture meridiane di Camus e le sagge dissertazioni di uno psicologo di lusso come James Hillman. È evidente in Roberta, anzi è prepotente, l’intenzione di nutrire la sua abilità tecnica degli umori di una consapevolezza aggiornata all’oggi. In questo senso la sua è un’arte che appare concettuale senza bisogno di mettere in discussione il “mestiere”. È falsa l’alternativa fra arte concettuale e manufatto. Com’è trita e ritrita la tiritera di un decotto epigonismo falsamente duchampiano interessato a legittimare i propri limiti, sparlando della pittura e del disegno, spacciati per discipline passatiste. Roberta Maola – e questa cosa è chiarissima nell’ultima opera esposta Conservare l’amore - può essere considerata se si vuole un’artista concettuale dotata di magnifiche qualità tecniche.

 

Ma  questa etichetta che ben si attaglia all’una e all’altra di queste artiste-amiche alla fine appare persino superflua. Da che mondo è mondo, infatti, non c’è arte di qualità che non sia concettuale. L’arte ha un disperato bisogno di idee e di concetti. Senza idee non esiste. È un’altra cosa. La mostra che oggi queste due artiste ci regalano è assolutamente in linea con l’insegnamento di Leonardo. Non nega la tradizione quindi ma nemmeno la imita. Perché usando la tecnica più antica ci parla dell’oggi.

 

 

Roberto Gramiccia

Roma, Febbraio 2018

The chosen title (Dispersed Humanity) sounds like a clinical diagnosis rather than the title of an exhibition which is its strength. The word "dispersed" contains the main aporia of our time and resembles the symptom of a serious disease. Indeed, humanity proves to be such when it exhibits its unitary structure as a "whole" rather than a set of "parts". On the other hand, the dispersion and shattering that precede it widen the weaves of the unitary fabric that should inform humanity of itself. They hurt and tear that fabric, creating lacerations and holes. Such wounds are painful for the human body which is almost seen as a living pathological finding.

 

Of course, history has never been a linear succession of progressive events, capable of giving a solid texture to humanity. It rather seems a cyclic repetition of ruins and rubble, blood, and unspeakable suffering. However, and despite everything, some certainties were kept alive until a few decades ago. For example, the existence of social classes, their ideologies, long thoughts, philosophies that even tried to interpret the world. Utopias and religions that were able to reproduce a possible direction to choose. Words which can express the multifaceted variety of feelings and rational propositions.

 

Nowadays exploitation, rubble, famine, and wars persist but some elementary certainties have disappeared. Those who have always allowed us to distinguish the hungry ones from those who cause hunger, the righteous from the unjust, the wicked from the saints. Umanità dispersa is the scene of a social atomization that relativizes and trivializes everything, which makes everything liquid and inconsistent, aphasic and apraxic. An inconsistency which feeds the ontological reasons for the despotism of the form, commodity which, in order to expand and dominate, needs not only the lack of competing narratives, but also the lack of residual barricades of critical and (even) poetic thinking.

 

Therefore, art has lost its references, even more than the Basilikè Tèchne policy (royal technique). It shakes and gasps for breath. It bows the head under the blows of a system of domination that submits everything to the noose of the market. In this gloomy scenario, any paradigm, or strong idea crumbles, including the statute of art which cannot fail to establish the perimeter, albeit flexible and changeable, of what is art or not. Everything becomes interchangeable and the only plausible statute is that which recognizes a single value to art: the exchange value. Art as a sub-commodity with the relevant value downgraded to price.

 

And in such a dark period, which has been going on for too long, and that I have been trying to study and fight for years to the best of my ability, I was offered to curate the exhibition of two artists: Giulia Del Papa and Roberta Maola. Two young artists who stand out and whose research and production are certainly and rightly seen as active resistance practices that still authorize a stubborn "optimism of the will". I refer to that kind of resistance which, in art and literature, as well as in politics and any other activity, refuses to believe that we cannot fight against such a postmodern inclination but only adapt to it.

 

Giulia Del Papa e Roberta Maola, without turmoil and with silent determination, reaffirm every day that hard work and study do pay back. They strongly believe that it is not mandatory to adapt to the disappearance of the artistic "profession", with the intention to maintain, within their work, the connection between art and world that Adorno considered an essential element of any aesthetic research. Today, the replacement of this connection with the diktats of a cynical and ferocious art system tends to prevail. This is the thesis. However, the antithesis exists, and it is thankfully embodied in the work of those who believe in the value of different and contrasting choices.

 

The weapons used by Giulia and Roberta in this battle of ideas are silent but relentless in their own way, namely pencil and drawing. A simple and grandiose element that made Florentine and Renaissance art a unique era. Drawing as a foundation. "Art is a mental thing" according to Leonardo Da Vinci, who established an indissoluble functional connection between mind, eye, and hand. Just as Venetian art was based on colour, to convey feelings and passions, Florentine art was based on drawing and contour lines, bearers and amplifiers of the rational thought. Such foundations coming from the classic Italian tradition are rarely present in post-contemporary art. However, these two artists not only go back there stubbornly but these principles are the pedestal of their daily construction.

 

I like to refer to this tradition when talking about their work. Rather than to the American hyperrealism, the classic one of Richard Estes, Ralph Goings and Chuck Close. Hyperrealism, with all the applicable exceptions, emulates photography in reproducing reality as it is. In fact, the best result for those who use this language is when their works may not be distinguished from photographic images. Such an illusionistic and somewhat funambulist intention is exactly the opposite of the investigation and daily work of Del Papa and Maola.

 

The works of these two artists have a natural relationship: they do not strive for the “magician” effect of a graphite virtuoso. The intention is different and has a higher purpose. It has nothing to do with the idle race against the cold calligraphic precision of photography. By observing with a minimum of attention the works of these two artists, we immediately realize that they are not common cloying photographic images made with the replicative lust of the digital technique. A warmth emanates from the figures and objects that populate their narrative, as a proof of the flow of their overwhelming vitalism. The goal of this couple of artists is to make art using the most ancient tool, since they believe that the chosen medium is not as important as the final goal.

 

They believe – and so do I -that craft and technique are essential building blocks in the activity of an artist who wants to have an even minimal impact on the long history starting from Lascaux caves. With these preconditions, today's exhibition in the authoritative and historical setting of the Menna/Binga Archive offers an incredible opportunity to admire six works distilled in months as for the most noble and expensive liqueurs. Such works are similar but also different in the approach of their respective authors to art and the world.

 

Giulia Del Papa reflects on the need to "slow down", stop and think about what we are missing about life due to the exasperated pace of the current lifestyle that never gives us a break. Speed ​​and superficiality are the two sides of the coin which imaginatively reproduces the figure of existence as it is today: an instant that flies away without leaving traces, an accomplice of a present detached from the future and the past. The faces portrayed with mastery in the three works presented by the author are those of the author herself, using the mirror in two of them to fix the image and encourage the observer to stop. A stop that refreshes and regenerates, capable of giving breath to the race and supply ideas to this time which lacks them. Art used to be described as a mental thing. And the representation of a space-time dimension is mental indeed and inside it, by slowing down, we can see the secret Visions (as one of the works titles), and discover the invisible essential that is otherwise destined to remain unseen. The accurate line and the dialectic of chiaroscuro expel any useless calligraphic ambition, bringing out a precision of synthesis that emancipates this artist from the cloying repetitiveness of a mannered and tired hyperrealism. The network of branches that, like a nineteenth-century veil, distances the observer from the faces, dry and apparently non-vital branches that will bear renewed and luxuriant vitality in the future, is the homage to the cyclical nature of the ancient Greeks of which even the literary memory has unfortunately disappeared.

 

Roberta Maola looks at the world in a similar way but directing her "reflection through the pencil" on social themes that testify to the drift of a fragility that in the past used to turn into revenge but it is now hiding in search of courage and active awareness. The rose of 69 centesimi contained in a plastic bottle for muriatic acid is heart-breaking. This product is apparently innocent but capable of disfiguring and violating identity and life, as in many events recently described by the press. Roberta directs the probe of her investigation into present facts and misdeeds such as in ... Spazio alle idee, where, with expertise and conceptual wisdom, she places a fork next to a flower. A connection with Ken Loach's Bread and Roses was immediately established in my mind, and the need for the exploited people in the world to have access to beauty, because beauty is as important as food. We are reminded of this by the meridian scriptures of Camus and the wise dissertations of the psychologist James Hillman. Roberta shows a strong and extreme intention to nourish her technical skills with the awareness of current times. From this perspective, her art appears conceptual without the need to question the "profession". The alternative between conceptual art and artifact is false. As well as the nonsense of a deceptively Duchampian epigonism that aims to legitimize its limits, talking about painting and drawing as past-life disciplines. Roberta Maola may be considered a conceptual artist with magnificent technical qualities, as clearly shown by her last work displayed Conservare l’amore.

 

This label is well suited to both artists who are also friends, but it seems to be rather superfluous. In fact, quality art has always been conceptual. Art desperately needs ideas and concepts. Without ideas, it would not exist. It would be something different. The exhibition of these two artists is totally in line with Leonardo's teaching. It does not deny tradition, neither it imitates it. It tells about the present while using the most ancient techniques.

 

Roberto Gramiccia

Rome, February 2018

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